Fa particolarmente caldo. I finestrini del furgone sono tutti aperti e nonostante le folate d’aria sono sudata. Sudatissima. La maglietta si appiccica al corpo, i capelli pure, sul viso, sul collo, vanno dappertutto, non so più come legarli! A dire il vero è da un po’ che traffico nervosamente con l’elastico in mano.
Oggi incontrerò per la prima volta la squadra di calcio e forse sono impaziente. Sono 10 mesi che cerco di immaginarmi questo momento.
Quando arrivo a Pozhiyoor il sole è già alto ed i finestrini dell’auto che Rama ha pulito con cura questa mattina sono già opachi, pieni di polvere.
Li vedo subito. Sono tutti in piedi, in fila, uno accanto all’altro, con le mani dietro la schiena. Le loro divise, giallo e blu (sì, le volevamo come i colori del Verona, if it is possible) brillano sotto il sole e continuano a muoversi, sembra che facciano fatica a stare fermi. Forse sono agitati. E forse lo sono anche io: stanno tutti puntando lo sguardo nella mia direzione.
Un piccolino mi si avvicina velocemente con una rosa rossa, la mette nella mia mano, accenna ad un timido sorriso e sgattaiola via a nascondersi fra i suoi compagni di squadra. Ma dove caspita l’avranno trovata una rosa qui. Fanno un lungo applauso. Lunghissimo. Almeno a me è sembrato infinito, forse perché volevo finisse in fretta. La verità è che sono imbarazzata e non mi piace esserlo, non lo sono mai, a meno che…non accada qualcosa che non abbia previsto. E tutto questo fragore non lo avevo calcolato, tutto il mio bel immaginarmi il momento aveva fatto cilecca, avevo dimenticato di premeditare una cosa importantissima e alla quale non si può dare regole in anticipo: le emozioni.
Il fischio d’inizio della partita mi salva da una violenta aritmia e mi ritrovo seduta sugli spalti circondata di ragazzini che non smettono di sorridermi e guardarmi.
Qualcuno osa chiedere What’s your name Madame e a me vien da ridere a sentirmi chiamare Madame. Not Madame, only Lorena. E si ripetono il nome l’un l’altro, ridacchiando e bisticciando fra loro per riuscire ad accaparrarsi il posto accanto a me.
Siamo in un piccolo villaggio di poveri pescatori, di turisti qui non ce ne sono e gli abitanti non sono abituati a vedere una Foreigner . Capisco subito di essere l’attrazione momentanea del paese perché anche donne, vecchi, bambini accorrono sul ciglio del campo da calcio per vedere da lontano cosa succede e non ce n’è uno che stia guardando la partita. Solo io, che cerco di concentrarmi a guardare davanti a me: sul campo non cresce un filo d’erba, è sterrato, i giocatori correndo alzano una densa polvere, rossa come quella del Rolland Garros.
In un attimo rivedo tutti i volti dei miei amici a casa, dei fornitori, dei dj, rivivo i momenti della serata trascorsa assieme, di chi ballava, chi beveva, chi rideva, tutti li rivedo, li ho tutti qui. Chissà che faccia farebbero se fossero qui con me a condividere questo istante, quale espressione ci sarebbe disegnata sul loro viso.
Chissà se sono consapevoli di quanta gratitudine consegue da un gesto che può sembrare banale: essere andati ad una cena, ed essermi divertito per giunta.
Guardali, che contenti che sono, hanno le divise, un mister –che fa anche da arbitro– con il fischietto luccicante, sono una squadra, ricevono un uovo e un bicchiere di latte ad ogni fine allenamento! Hanno addirittura le scarpe con i tacchetti, proprio come quelle dei loro idoli sui poster attaccati nelle camerette dove dormono assieme a tutta la famiglia. But we needed a day to learn how to dress them. Ci è voluto un giorno interno per imparare a mettersi la scarpa, sai, tutti i lacci dentro il buco giusto, fare il nodo… qualcuno va anche a dormire senza togliersela. E sì che per noi non è niente, una scarpa. Non significa niente. Qui in questo piccolo paese indiano invece è un mondo, fatto per lo più di speranza e per chi spera a volte un piccolo sogno si può anche avverare. Ma in questo caso il sogno realizzato è anche mio, e tutti questi sorrisi, grandi come l’amore più incontaminato che possiamo provare, li sto prendendo io. Il merito più grande va a tutti voi che avete contribuito alla cena di beneficenza rendendo un sogno reale. Non so cosa darei per avere qualcuno dei miei amici qui con me. Sono commossa. Un cuore solo non può trattenere per sé tutta questa grandezza d’amore.
La partita sta terminando Madame, Le è piaciuta? Venga che vogliamo fare una foto assieme ai bambini. Sono tutti elettrizzati, c’è chi canta, chi balla, chi mi strattona per tenermi la mano. Ci mettiamo in posa sul ciglio del campo sportivo e qualcuno fa le foto. Tra saluti e strette di mano il Mister mi accompagna verso l’auto che mi riporterà al centro Namastè – Wings to fly e io gli chiedo se serve ancora qualcosa per la squadra. Guardo verso le porte, ingiallite, scrostate dal tempo e spoglie.
<Dove sono le reti?> chiedo al Mister, pensando di avere trovato qualcosa di utile da poter acquistare.
<Sono nel magazzino, Madame!> dice lui sorridendo.
<E perché non le mettete su?> chiedo io, stupita.
A questo punto è lui a guardarmi stupito, come se fosse ovvia la risposta:
<Perchè altrimenti si consumano!>
8 II 2014
Pina’s diary