Diario di una volontaria Namaste: ricordi della mia esperienza in India


È da una settimana che sono In Italia, da una settimana che continuo a pensare di aspettare a scrivere le lettere che ho promesso ai bambini, perché alla fin fine è solo una settimana che sono tornata. Una settimana. 7 giorni in cui continuo a ripetermi che sì, sono tornata, che posso smetterla di girare a piedi scalzi, di scuotere la testa come gli Indiani, di mangiare con le mani. 7 giorni che penso a quanto affetto quelle piccole creature dal cuore immenso siano riuscite a trasmettermi in un mese, a quanto amore siano riusciti a darmi pur avendo vissuto in situazioni in cui l’amore a volte era l’ultima cosa che veniva insegnata loro.

Il mio viaggio in India è cominciato come un’avventura verso un paese sconosciuto e finito con un arrivederci ad una terra che ho amato e a delle persone a cui ho voluto bene come se fossero state la mia famiglia. Questa è la parola che userei per descrivere Namaste: “Famiglia”. Una famiglia che accende un bagliore di speranza negli occhi di bambini e ragazzi dallo spirito talmente genuino che sarebbero pronti a dare tutto senza avere nulla.

Ma partiamo dall’inizio, perché tra me e l’India non è stato un colpo di fulmine; è stato un amore cominciato con tanta incertezza, un po’ di incomprensioni iniziali e di “tira e molla”. Insomma, un po’ come il primo amore, che non dura per sempre ma non si scorda mai.

L’impatto iniziale è stato brusco: arrivo a Trivandrum alle 5 di mattina, domande improbabili alla dogana, gente che ti fissa dappertutto, perché credeteci o no, 99 su 100 ti ritrovi ad essere l’unico occidentale nel raggio di chilometri dopo appena 10 ore di viaggio, e per chi non è abituato a vivere come una minoranza, la cosa fa abbastanza effetto. Arrivata a Namaste non vedo l’ora di fare la doccia. Lascio andare a dormire il buon Tadeus, fedele amico dei volontari, e non faccio domande, alla fin fine devo solo fare una doccia. Risultato: doccia gelata per due settimane, fino all’arrivo di Claudine e Fabio (anche detti “La Queen” e “Il Maestro”), che mi svelarono la tecnica per trovare l’acqua calda: bastava abbassare l’interruttore. Da qui in poi inizia una storia d’amore con un paese le cui persone mettono i fiori sui capelli, si arrampicano sugli alberi per prendere cocchi, giocano a cricket alle sei di mattina e a calcio scalzi sui sassi.

La prima volta che ho capito che l’India e Namaste mi avrebbero fatta innamorare è stata quando appena due giorni dopo aver messo piede in quel mondo sconosciuto, i ragazzi mi chiesero se avrei giocato con loro alle 6 la domenica mattina. Sfida accettata. Alle 6 ero in campo, alle 6.15 ero già stata eliminata dal gioco al primo turno di battuta di cricket. Una delusione penserete, eppure per 5 settimane, ogni domenica qualcosa mi faceva svegliare alle sei anche solo per vivermi quel paio d’ore con quel gruppo di ragazzi che giorno dopo giorno stavano diventando parte di me, prima come amici, poi come veri e propri fratelli e sorelle.

Pur essendo la parentesi più bella che io abbia vissuto e quella più dolorosa da lasciare, i bambini e i dipendenti di Namaste non hanno rappresentato l’unica novità di questo viaggio. Cibi, luoghi, mezzi di trasporto, usanze, festività, non mi hanno solo ricordato quante poche cose so ancora riguardo al mondo che ci circonda, ma mi hanno anche mostrato che una cultura diversa da quella occidentale esiste ed è estremamente affascinante in alcuni suoi aspetti. Il fatto che la cultura occidentale non fosse l’unica ad esistere ovviamente già lo sapevo, ma tra saperlo e rendersene effettivamente conto c’è una gran differenza. Cibi talmente speziati che mandano in confusione tutti i 5 sensi, alcuni a tal punto da mandare su di giri anche il famigerato sesto senso, spingendoti a mangiare cose che sarebbe stato molto meglio lasciare nel piatto. Ristoranti con un solo tavolo, una pietanza da “scegliere” (o quella o a casa), “chai” o caffè a fine cena: spendendo 50 centesimi si torna a casa a stomaco più che modestamente pieno e sempre e comunque felici, perché cosi è l’India. Se al cibo piano piano, boccone dopo boccone, chicco dopo chicco un po’ ci si abitua, ai mezzi di trasporto indiani e all’educazione stradale del paese non ci si abitua mai. Taxisti che spesso si dimenticano di star guidando un umile risciò e sfrecciano per le strade di Vellanad impersonandosi un po’ nello Schumacher degli anni d’oro, autobus con finestrini perennemente aperti e rami che rischiano di accecarti ogni volta che si passa vicino ad un albero, per non parlare dei comuni guidatori di auto, che guidano con una mano sul cambio e l’altra sul clacson, in fondo la mano sul volante cosa serve?

Quando sono partita sapevo che sarei stata circondata da persone ed usanze che mai avrei potuto immaginare, e nonostante tutte le fantasie che mi ero fatta su questo paese, mai mi ero spinta cosi lontana con l’immaginazione.

È così che ho vissuto questa mia prima esperienza da ospite a Namaste, sono partita volontaria e sono tornata sentendomi sorella di un centinaio di bimbi, a cui ho lasciato un pezzo di cuore che non vedo l’ora di andare a riprendere. Sì sono tornata, ma credo che le scarpe possano ancora aspettare e che la voce di quella forchetta che freme di essere usata verrà ignorata ancora per qualche settimana. Sono tornata a casa, è vero, ma mi sono resa conto che casa non l’avevo mai lasciata.

Benedetta Morpurgo
volontaria Namaste