Diario indiano di un volontario Namaste: in gita con i bambini di Kottoor


La gita, da che ho memoria, è sempre stata uno dei momenti più elettrizzanti dell’anno. Non importa se i tuoi maestri ti portavano qualche ora nella ridente cittadina di Poggibonsi o una settimana a Nizza: l’importante era saltare un giorno di scuola ed essere lontano dalla supervisione dei tuoi genitori per qualche tempo. Non che a sette o otto anni facessimo chissà quali pazzie, era per lo più l’idea in sé, quel finto assaggio d’indipendenza che rendeva l’avventura fuori porta, per me che sono bolognese, un evento da aspettare smaniosamente per tutto l’inverno.

Perciò, una volta in India, quale esperienza più formativa da fare con il tuo ex-insegnante delle elementari se non portare i bambini fuori per una gita? Perché non invertire i ruoli, in fondo? E così, venerdì mattina organizziamo su consiglio del “Pres.” (Claudine, ndr) una gita al Magic Planet: il loro slogan è “entrano bambini, escono genii”. Forse per noi accompagnatori è un po’ tardi, ma magari funziona anche con noi… almeno speriamo.

E cosi venerdì mattina partiamo con il pulmino dalla sede di Namaste ad un orario di cui non sapevo nemmeno l’esistenza per andare a prendere i bambini che vivono nelle due case famiglia di Kottoor, le “Case di Anna”, un pò fuori mano. È chiaro che i soldi che arrivano dagli sponsor, persone comuni che hanno deciso di rinunciare a qualche pizza per aiutare questi bambini, non vengano sperperati per attività del genere. Per quanto divertente e profonda, i loro soldi sono usati per beni di prima necessità, istruzione, cibo, salute, perciò decidemmo che quella sera non saremmo “usciti a cena” (se cosi si può dire), ma avremmo pagato l’ingresso, oltre che a noi accompagnatori, anche a tutti i 32 bambini ospitati. Questi bambini sono i cosiddetti “tribal”, ovvero bambini in situazioni di difficoltà che vivevano nei villaggi nelle foreste. Fu perciò da un lato molto interessante il viaggio sul pulmino, circa un’ora e mezza, e dall’altro altresì commovente: questi bambini, infatti, non hanno mai visitato delle città, sperimentato il traffico infernale delle strade indiane o visto le luci dei negozi. Era buffo vederli guardarsi intorno strabiliati indicando l’uno all’altro cose che per noi rientrano nella più comune normalità, scadendo, al massimo nel chic invece che giocare con iPad e simili.

Dopo qualche ora di viaggio, arrivammo al “parco divertimenti”. Come puntualmente ed accuratamente descritto dal “segretario” (Fabio, ndr), citando le parole del ragionier Ugo Fantozzi, era “una cagata pazzesca”. Di fatto, sottoscrivo. Era un parco che si prefiggeva l’obiettivo educativo di mischiare magia e scienza. Per quanto nobile fosse la crociata, per noi abituati a posti come Disneyland Paris o Gardaland, non vi era una reale competizione sotto alcun aspetto: il parco era abbastanza piccolo, più o meno come il parcheggio di Mirabilandia, ed i “trucchi” erano di quelli che puoi trovare comodamente scorrendo la bacheca di facebook dopo aver già letto le etichette di tutti gli scampi di tua madre.

Tuttavia, per quanto questa per noi fosse una “cagata pazzesca”, bisognava tenere a mente che questi bambini avevano vissuto fino a pochi anni prima nella foresta, senza quasi alcun contatto con la realtà ed il resto della società: immaginatevi riproporgli una rivisitazione in chiave magica de “la tempesta” di Shakespeare, piuttosto che l’applicazione delle più basilari leggi della chimica.

Davo quasi per scontato che i bambini fossero entusiasti della gita, di avere incontrato il presidente del parco (un mago che aveva sbancato il lunario), e di avere passato una giornata in gita, tuttavia non riuscivo a vederlo nei loro occhi. Non riuscivo a cogliere i sorrisi elettrizzati per la prossima attrazione, i saltelli frenetici in attesa di vedere come il trucco di magia finisca. Ciò, inizialmente, mi deluse; lasciò un retrogusto amaro in bocca: capisco che il parco non fosse esattamente wonderland, ma questa atavica indifferenza mi deluse in qualche modo. Mi fu spiegato, ed ancora cerco di comprenderlo appieno, il peso della cultura indiana che questi, seppure bambini, si portano dietro; di come questo peso che si portano sulle spalle fin da quando sono in fasce influenzi cosi marcatamente ogni loro comportamento.

Crescono, infatti, in una società che fin da bambini li divide in maschi e femmine, aberrando ogni tipo di contatto emotivo e fisico. Una società dove la gentilezza, anche solo formale, è pressoché inesistente: ringraziare qualcuno per un qualsivoglia gesto è impensabile in quanto percepita come una sorta di sottomissione. Tuttalpiù, è ammissibile una scossa di testa per dire sì, no o forse, creando in noi occidentali una certa confusione. Non c’è quindi da stupirsi se questi bambini, in fondo, abbiano difficolta nell’esprimere le emozioni, lasciare trasparire delle debolezze o degli sguardi che non trasmettano esclusivamente un senso di distacco da ciò che li circonda. Altri, con più esperienze di me, sapevano comunque vedere emergere il lato ancora innocente ed immacolato, libero dalle restrizioni e dogmi di una società retrograda. Quel lato che gli permetteva di essere bambini, nulla di più e nulla di meno.

Questo aspetto d’altra parte, ha reso la nostra partecipazione estremamente semplice: in gita alla celeberrima Poggibonsi, con i miei compagni, facevamo chiasso, scappavamo a vedere delle vetrine, ci sporcavamo con le schifezze che potevamo permetterci con i pochi soldi che i nostri genitori ci davano. Loro, al contrario, furono impeccabili. Giocavano quando era tempo di giocare, stavano in silenzio quando cominciava lo spettacolo di magia, sobbalzavano in maniera composta quando la ragazza veniva tagliata in due dentro la scatola. Confrontandoci a fine giornata tra noi accompagnatori, ci rendemmo conto che l’unico momento in cui dovetti rimproverarli fu quando la sfilata con i miei occhiali da sole cominciò a degenerare, diventando più un attività di gruppo che altro.

Nonostante la mia iniziale delusione, ero molto contento. Esausto certo come tutti i bambini che poco a poco si appoggiavano l’uno all’altro mentre fuori dai finestrini imbruniva. Tant’è che devo essermi addormentato, da buon educatore quale mi ritengo, su un paio di bambini nel viaggio di ritorno.

Avendo dedicato poco tempo agli spettacoli in sé, ci tengo a menzionare un momento conclusivo della gita. La giornata, del tutto guidata dagli addetti, si concludeva con il mistico trucco della corda indiana, prima messa in un secchio come una comunissima corda e che poi, al suono di un flauto, s’irrigidiva e da sola usciva dritta dall’anfora.

Tuttavia, il mago non aveva considerato la provenienza dei bambini, come già detto tribal, e che quindi abituati ad arrampicarsi sui più impervi alberi. Sicché, al fine di dimostrare l’autenticità del trucco, il mago prese uno dei bambini per farlo avvinghiare alla corda. Questo, con un salto portentoso che nemmeno nei miei anni d’oro sarei stato in grado di fare, si è abilmente inerpicato sulla corda senza bisogno di alcun aiuto cercando di arrivare in cima e, a momenti, facendo fallire il prestigio di fronte a centinaia di persone.

Il presidente del parco, il sopracitato mago in pensione, era visibilmente preoccupato. Preoccupazione che abilmente nascose offrendo a noi ed ai ragazzi una veloce merenda, rischiando di compromettere il viaggio di ritorno in bus per improvvise nausee dovute alla terrificante guida così comune in India.

Matteo Milani
volontario Namaste

13 luglio 2018