Il primo novembre 2011 sono atterrata a Trivandrum, destinazione Vellanad, un puntino su una mappa completamente sconosciuta. La meta: Namastè e i suoi mille bambini. Il piano: un mese e mezzo di volontariato presso questa associazione.
In breve il puntino si è trasformato nel mio mondo e i mesi sono diventati due e mezzo perché Namastè è una grande famiglia in cui è facile essere accolti e da cui è difficile distaccarsi.
Sono partita per l’India con l’India nella testa, con quell’idea di antichi e moderni viaggiatori a cui l’india appare come l’ultima frontiera di una spiritualità smarrita, di un passato archetipo in cui immergersi. Sono partita per l’India con l’Idea di odori, sapori, culture sconosciute da conquistare. Sono partita per l’India con tante idee e ne sono tornata priva, perché l’India è il viaggio più concreto e reale che puoi concederti se vuoi, e Namastè e il suo trambusto fanno parte di questa concretezza. Posso dire che mi hanno prestato nuovi occhi per vedere questo antico mondo e la sua nuda e ricca realtà, a volte fin troppo densa, a volte fin troppo dura.
In questi mesi ho sentito molte storie, ho conosciuto tanti bambini e le loro povere famiglie, sono stata accolta da una marea di sorrisi, ed ho provato tante emozioni, non sempre chiare, non sempre piacevoli: vorresti poter aiutare tutti, ma si sa questo e’ impossibile. Però nel tuo piccolo puoi o almeno ci provi a dare il tuo contributo alla crescita di un mondo che tu speri possa nel tempo diventare più giusto, diventare migliore.
Sostanzialmente non ho fatto altro che tradurre le storie di questi bambini dall’Inglese all’italiano, in alcuni momenti e’ stato un po’ faticoso stare seduta così tante ore, con tutto quello che fuori c’era da vedere. Ma alla fine in India niente e’ come sembra e anche questo lavoro e’ diventato dinamico ed emozionante. E così mi sono ritrovata a volte a piangere leggendo di alcuni bambini e delle loro famiglie, altre volte mi sono arrabbiata per quello che non potevo e non riuscivo a capire, altre ancora mi ha commosso la generosità o la vicinanza di alcune famiglie italiane. Il lavoro poi non si e’ svolto soltanto in ufficio, ma nei villaggi polverosi, nelle foresta dove alcuni abitano, conoscendo bambini, nonne e sacre vacche indiane. Ho scoperto che con il fango si fanno i mattoni e che il Kerala non sarebbe il Kerala senza il cocco, che serve per tutto: dall’olio per i capelli, alle foglie intrecciate e usate come tegole per i tetti. Ho potuto girare molto, soprattutto con gli amici indiani dell’ufficio o con i ragazzi che vivono nella casa famiglia. I bambini mi hanno allargato il cuore, ma questo era prevedibile e forse fin troppo facile, soprattutto quando nei loro volti puoi leggere l’esplosione della speranza più pura, quella che purtroppo non sei sempre più sicuro di riuscire a trovare nel tuo paese. Io sono bianca e continuo ad esserlo, e sono europea e non posso non esserlo, e qui ho capito cosa significa, cosa significa, portarsi addosso la storia che volente o nolente ti precede. Allora le domande che mi sono posta sono state tante, troppe, nel tentativo di afferrare una realtà così complessa. Ed ho pensato a quanto o come sia giusto aiutare, quanto pericoloso possa essere sentirsi forti e grandi nel tendere un mano, quanto sia rischioso sentirsi “bianchi”. Mi è stato allora chiaro che non dobbiamo mai perdere di vista l’umana disperazione che ci abita tutti e renderci conto che se stiamo dando una mano è perché chi riceve il nostro aiuto in realtà aiuta noi a comprenderci, a tirarci fuori, ad accettarci attraverso un storia che non e’ la nostra, ma ci appartiene. E questo e’ quello che e’ successo a me.
“Non basta far del bene, bisogna anche farlo bene” e’ scritto sulla homepage di Namastè, io aggiungo che bisogna sapere e ricordarsi perché lo si fa. In Namastè io ho teso la mano e ne ho trovate cento tese verso di me.
Ho pianto e riso imparando tanta umanità.
Cristina