Diario indiano di un volontario Namaste: The first “NAMASTE CUP”


Il ruolo di noi semplice volontari è complesso. L’unica abilità che ci contraddistingue è la voglia di fare e l’entusiasmo, tuttalpiù. Per il resto nessuna abilità specifica: non gestiamo le visite alle famiglie, non siamo fotografi, nessuna competenza particolare, però almeno siamo di bella presenza.

Stanca di questa situazione ormai cristallizzata, Serena ebbe un’illuminazione, un lampo di genio per riscattarci da questo ruolo. Come diceva “il Perozzi”, il genio è fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione: in meno di una manciata di giorni decidemmo di organizzare la Prima Namaste Cup.

In India vige innanzitutto una forte divisione di genere che le persone sentono molto fin dai primi anni di vita. Ad esempio, il contatto fisico è quasi proibito e se non altro mal visto; una coppia, per prenotare una camera di hotel insieme con un letto matrimoniale deve spesso presentare il certificato di matrimonio; in generale, qualunque rapporto con l’altro sesso, sia fisico che verbale, è fortemente osteggiato dalla società in se. In oltre, qui a Namaste vi è una divisione anche dovuta all’eta in quanto, per legge, le case famiglia devono ospitare ragazzi della stessa eta: perciò, a Namaste abbiamo tre case famiglia per le ragazze. L’idea era molto semplice: creare una competizione in cui le squadre fossero fatte in maniera casuale, senza differenziazioni di età e di genere.

Una volta recuperati i premi per i primi e secondi classificati, cosa che si è rivelata più difficile del previsto, non restava che l’organizzazione di un torneo che coinvolgesse più di 80 bambini. Potrebbe non sembrare un compito complesso, ma per quanto noi abbiamo provato ad abbattere le barriere di genere e di età, le costrizioni sociali sono già ben radicate nei ragazzi: perciò molti giochi dovevano essere evitati, specie quelli che coinvolgessero il contatto fisico. Inoltre, raggruppare 80 bambini nello stesso luogo nel mezzo della giungla indiana non è stato affatto una cosa semplice.

Seppure il tempo ed i mezzi scarseggiassero, i preparativi sfiorarono la perfezione. 8 squadre si sarebbero sfidate in quattro giochi diversi a punti comprendendo corse staffetta ad ostacoli (con bocconi vuoti da passarsi e scarpe di noi volontari, taglia 45/48) e quiz di cultura generale. Le squadre che avessero ottenuto più punti, si sarebbero infine sfidate in un’ultima sfida a loro sconosciuta.
Tra un preparativo e l’altro, i giorni volarono ed improvvisamente mi ritrovavo di fronte ad ottanta bambini a dover spiegare le regole del torneo. Devo ammettere che ero molto teso, ma per ragioni diverse da quelle che mi aspettavo. Sapevo che il torneo sarebbe riuscito bene e che i ragazzi si sarebbero divertiti (almeno quasi tutti), soprattutto grazie alla supervisione di Serena ed il braccio fermo del presidente. La mia tensione era dovuta più al fatto che io, da piccolo, gli animatori li ho sempre odiati: volevo giocare con i miei amici per i fatti miei, non volevo che qualcuno mi dicesse a che gioco giocare, e tuttora mi sembra sciocco. Ed invece, si nasce da incendiari e si muore da pompieri, a quanto pare. Perciò, visibilmente sudato, stavo di fronte ad ottanta bambini che mi guardavano impassibili, attoniti. Chi ha più esperienza di me mi ha poi spiegato che i ragazzi erano molto eccitati all’idea del torneo da qualche giorno, ma una volta arrivati lì, sembravano quasi essere stati costretti, come forse da piccolo mi sentivo io. Un problema per noi occidentali in India, infatti, è che la loro cultura gli impone di mostrare le loro emozioni il meno possibile, rendendo perciò difficile capire il loro livello di coinvolgimento. Era perciò complesso per me capire il loro livello di gradimento del torneo in se. La tensione, per quanto provassi a nasconderla, saliva: che fallimento epocale, dicevo tra me e me.
Tuttavia, era già tutto pronto, troppo tardi per tirarsi indietro. Poi, d’un tratto, il torneo era cominciato, e tutte quelle che erano le loro imposizioni sociali, culturali, il loro credo presto si sgretolarono. Trascorse poco tempo prima di sentire i primi gridolini eccitati dei più piccoli per la staffetta, gli schiamazzi dei più grandi in ansia per la prossima domanda di cultura generale. Nonostante tutto quello che fin da piccoli hanno visto o gli sia stato insegnato, è bastato un attimo perché cultura, povertà e diffidenza sparissero. Solo un momento di imbarazzo, prima che tornassero ad essere, anche se per poco, ragazzini al parco, che vogliono solo giocare. Non nascondo che mi divertii durante la prima Namaste Cup, mi divertii vederli giocare tutti insieme a dispetto della società che li circonda. Onestamente, avrei voluto parteciparvi insieme a loro ma sarà per la prossima edizione, temo.

Come per ogni grande evento sportivo, non mancarono accuse di favoreggiamento, brogli, punteggi sbagliati più o meno volontariamente e tutto un programma che quasi subito venne disatteso. Ciò nonostante fu un successo, soprattutto per il gelato che abbiamo distribuito a tutti alla fine del torneo: certo i bambini si sono divertiti moltissimo, ma più importante ancora, Serena, e sopratutto io, abbiamo forse riscattato la nostra posizione.

Pare che, tra i corridoi di Namaste (ovviamente non ci sono corridoi), si rumoreggi già di grandi storie di rivalse e rivincite per la prossima “Namaste Cup”.

Matteo Milani
volontario Namaste

22 luglio 2018