SLIDING DOORS, diario di Shilpa sull’esperienza Namaste


È passata una settimana dal mio rientro dall’India, eppure ancora fatico a mettere nero su bianco tutte le emozioni che mi hanno scombussolata durante la permanenza a Namaste. Nella mia casa italiana preparo un riadattamento grossolano del chai, privo di quel panetto di burro che a quanto pare usano nei baracchini di Vellanad, e sorseggiandolo cerco di riordinare le idee per mantenere la promessa fatta a Claudine prima di partire.

Chi mi conosce sa che il mio rapporto con l’India è viscerale, appassionato, privo di mezze misure: nata nel Karnataka alla fine degli anni ’80, ho avuto la fortuna di crescere in una meravigliosa famiglia italiana e riscoprire il mio paese d’origine attraverso gli studi universitari, le letture, i film e soprattutto il corpo.

Da qualche anno a questa parte è la danza infatti che mi porta a compiere viaggi in terra natìa, per apprendere tutto quello che poi esporto in Italia con workshop ed esibizioni. È stato proprio dopo uno di questi spettacoli a Bologna che Claudine e Fabio mi hanno proposto di raggiungerli in Kerala ed insegnare la mia danza, l’odissi, a quelle bambine che da qualche mese già praticano un altro tipo di danza classica indiana, il bharatanatyam.

Con la testa piena di sogni ed esercizi, lascio Bhubaneswar (Orissa), in cui mi sono recata per dieci giorni di allenamento, e parto alla volta di Trivandrum, dove Fabio mi accoglie calorosamente all’aeroporto per scortarmi alla sede di Namaste.
Varcata la soglia dei cancelli della casa, l’impatto è immediato: le immagini di Solur, il villaggio dove sono stata accolta per un anno prima di essere scelta dai miei genitori, si mischiano alle forme della struttura keralese, i volti dei bambini che accorrono per vedere chi è arrivato si fondono con quelli che mi guardavano nella mia ultima visita alla crèche dove ho vissuto.
So già che questo sarà un viaggio diverso dai miei soliti, che qualcosa da dentro si smuoverà e, finalmente, si scioglierà.

Dopo aver salutato la moglie di Fabio, nonché Presidente dell’Associazione (Claudine), conosco immediatamente i miei compagni di viaggio: una volontaria veneziana (Serena), un volontario bolognese (Matteo), un fotografo vicentino (Gianluca), e inizio a sentire leggende metropolitane sul fotografo barese che ci raggiungerà la settimana successiva (Giuseppe). Si forma così un gruppo pazzo e improbabile, i cui membri, forse proprio per la loro diversità, si incastrano perfettamente come meccanismi di un orologio, dove ognuno ha un ruolo e uno scopo preciso che giustifichi la sua presenza.

Le intense giornate che il Presidente organizza per tutti noi vengono scandite dalle attività nelle case-famiglia e dalle visite alle famiglie bisognose di villaggio, già sostenute da qualcuno o in cerca di sponsor che possano dar sollievo alle condizioni disagiate in cui vivono. Claudine è piena di idee ed empatia, di entusiasmo e determinazione: trova sempre le parole giuste (in qualsivoglia lingua) per consolare le mamme in difficoltà che vorrebbero dare un futuro migliore ai propri figli, ha un sorriso e un abbraccio per tutti i bambini che incontra, aiutata dalle fieldworkers capisce di cosa queste persone abbiano bisogno (la sistemazione del tetto, della cucina, di un pozzo, le cure mediche, l’acquisto di una capra, etc.) e agisce il prima possibile per trovare aiuti.
Fabio, da bravo segretario, dà supporto concreto alla moglie e, insieme a Gianluca e Giuseppe, propone incredibili scatti che andranno a testimoniare il lavoro di Namaste, oltre a regalarci immagini meravigliose di bimbi sorridenti e donne bellissime.
I volontari interagiscono con i bambini e cercano di smorzare la tensione creata dai racconti delle famiglie, intrisi di storie agghiaccianti su padri alcolizzati e violenti. Io il più delle volte rimango in disparte e fatico a dare il mio contributo, nonostante l’empatia con le donne (in particolare le nonne) sia piuttosto immediata, dato il mio aspetto.

L’unica cosa a cui continuo a pensare è che potrei essere io in quella stessa condizione, che la mia vita avrebbe potuto prendere un’altra strada, che avrei potuto perdere il mio treno e salire su quello successivo. E allora mi immagino cosa sarebbe successo se fossi rimasta a Solur: avrei fatto da bambinaia al altri orfani, forse avrei potuto lavorare come sarta o infermiera, mi sarei sposata molto giovane e avrei avuto figli a cui voler regalare un futuro migliore. Una vita comune ai margini della società, priva di tutti quei diritti femministi che con la mia cultura adesso rivendico e pretendo.

Spesso vorrei abbracciare forte quelle donne e dire loro che andrà tutto bene, ma è meglio che ci pensi Claudine, io ho un macigno sul cuore che non mi fa respirare e, rischiando di sembrare fredda e monolitica, esco dalle case limitando il contatto fisico. Percepisco che ognuno sta combattendo a suo modo contro i propri demoni, tuttavia l’atmosfera nel gruppo è sempre allegra e prendersi in giro, per esempio sul fatto che tutti mi parlino direttamente nella lingua locale che non comprendo (malayalam), diventa un modo per allentare la tensione e risollevarsi il morale a vicenda. Fortunatamente la gioia dei bambini delle case-famiglia e la complicità raggiunta con alcune ragazze, pronte a trasformare la loro camera da letto in un centro estetico, rendono sempre piacevole il rientro serale alla sede di Namaste.

Medicina preferita, la danza mi ha aiutato a risolvere i turbamenti interiori in più di un’occasione, grazie ai vari momenti collettivi che ben si prestavano al tormentone #shilpaballa, che fosse la visita ad una nursery school, la riunione dello staff locale, il momento di relax in terrazza o uno spettacolo vero e proprio. Vedere gli occhi sgranati dei bambini più piccoli, comunque consapevoli delle storie di Krishna e Ganesh che stavo raccontando con la recitazione, ha colmato il mio cuore sentimentale, e le mudra perfette (i gesti delle mani) delle bambine a cui ho dato lezione mi hanno riempita d’orgoglio. In un contesto del genere in cui mi sembrava di aver poco da donare, mi sono sentita utile, nel mio piccolo, nell’aver regalato un po’ di bellezza a chi mi stava guardando.

I momenti dei saluti sono i peggiori, ringrazio Claudine e Fabio per avermi fatto vivere un’esperienza così profonda e mi lascio andare ad un pianto liberatorio negli abbracci dei miei compagni, che inconsapevoli curano il mio cuore spezzato: un altro anno senza India, ma so che presto tornerò.

Shilpa

(luglio 2018)